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NATALE FUORICORSO
di Taeli Valmont

Nevica.

Vedo la neve cadere dalla finestra del primo piano del vecchio stabile di ringhiera, di quella che, qualche romantico imbecille, chiama ancora “La Milano dei nostri nonni”.

Milano è multietnica, extracomunitaria, extraterrestre altro che nonni!

I nonni te li servono nei ristoranti cinesi, insieme ai gatti che spacciano per polli.

Radiopopolare propone una canzone che ho già sentito: “Strana luce porta neve e la gente porta i lupi. Invadendo il centro barbaro con i pacchi della Upim”.

Non conosco l’autore, però la canzone mi piace.

E’ in sintonia con me e la mia finestra.

 

Vedo cadere la neve, fitta come i desideri irrealizzabili, leggera come i pensieri che lievitano fino a scoppiare, bianca come le notti in cui non dormo, grigia come il fumo della mia sigaretta che esce dalla bocca come un’imprecazione.

Bianco su nero.

Il bianco della neve sull’ombra dell’imbrunire.

Yin e Yang.

Negro immigrato e italiano razzista.

Martello e incudine.

Agnello e lupo.

Terra e cielo.

Sole e luna.

Lacrime e sangue.

Bugie e verità.

Sesso e amore.

Odio e tolleranza.

Tutto è complementare.

Tutto si incastra o incastra, come la vita.

 

E’ tutto irrealmente reale da questa finestra: scorrono i pensieri le cose, le persone.

Guardo e vedo la vita col suo passo deciso ignorare tutto, scorrere velocemente sopra le teste di chi vive, di chi la insegue, di chi la rifugge, di chi la schiva, di chi, fra non molto, ne avrà nostalgia.

La gente cammina avvolta dai piumini scuri: sembrano tutti in divisa, tanti soldatini tutti uguali, solo che al posto delle armi imbracciano i regali di Natale.

Oggi è la vigilia di una festa che non sento più.

La luce agnostica di un lampione illumina due ragazzi: lui è alto, ha un berretto calato sugli occhi, lei è piccolina, i capelli lunghi, sciolti.

Lei gli cammina davanti con le mani strette dietro la schiena, saltella come una bambina, sembra giocare.

Lui la raggiunge, la abbraccia, si china verso di lei.

Sembra che la bacia.

No, no, non sembra: la bacia.

Guardo altrove.

Le storie a lieto fine mi stanno sulle palle.

Meglio il vecchio che trascina una gamba.

Per me fra un po’ scivola.

No, non scivola.

Magari dopo.

Apro la finestra per annusare la neve: un odore di spezie indiane mi salta addosso all’improvviso.

Richiudo.

Dev’essere la famiglia dei Sandokan, qui di fianco.

 

I due ragazzi son sempre lì e il vecchio storpio è arrivato quasi alla fine della via senza cadere.

Magari adesso attraversa e un’auto lo stira.

Può essere!

Automobilista assassino!

No, vecchio pirla!

Te li raccomando i titoli sui giornali.

 

I due che limonano e il vecchio che non si vede più.

Che panorama interessante da questa finestra!

Alfred Hitchcock non avrebbe certo potuto ricavarne un film.

Nemmeno un telefilm.

Carriera di regista stroncata!

 

“Ma dove andiamo di preciso?

La voce di Isabella mi richiama alla realtà.

Dove andiamo di preciso.

Ma perché esser precisi.

Non si potrebbe andare e basta?

No.

Per Isabella ci vuole sempre una scusa, un pretesto, un luogo.

Non si può uscire e basta.

Mi appare illuminata dalla debole luce della lampada del salotto come un fantasma.

E’ in sottoveste, ma non assomiglia a Kim Basinger.

Ha i fianchi appesantiti che debordano dalle mutande troppo strette che si intravedono sotto quella mascherata da nove settimane e mezzo.

Ho paura a guardarla in viso.

Paura di quelle rughe attorno agli occhi evidenziate dall’ombretto indaco, paura di quelle occhiaie che non mi avevano spaventato quando, ventenne, la vidi per la prima volta. Paura di quei capelli scuri, stopposi che le sfiorano i seni troppo piccoli e troppo vuoti come la vita che hanno attraversato.

Paura di quel corpo che non è mai sbocciato come si deve e che presto appassirà senza una ragione ben precisa.

Poi cedo e la guardo.

La esploro con cattiveria.

E pensare che una volta le ho anche detto “ti amo”.

L’interesse per quel corpo, sgraziato e assopito da tempo, sembra un lontano ricordo.

L’affetto è una chimera che fa impressione, di quell’impressione che tira indietro.

La luce del salotto la rende davvero spettrale…magari lo fosse!

Ma è viva, incredibilmente viva.

Troppo viva.

O almeno sembra.

 

“Vestiti che usciamo”

“Per andare dove?”

“Andiamo in centro, a festeggiare.

E’ la vigilia di Natale santiddio!

Vestiti, truccati, fatti bella.”

Sì, insomma, penso: fa quel che puoi.

Isabella scompare dietro la porta dell’anticamera.

 

La canzone è quasi finita “C’è un santino di Natale fuoricorso come me”.

E capirai!

Però è vero: mi sento fuoricorso anch’io, questa sera.

La sento armeggiare nel bagno con tutte quelle cose che rendono una donna finta.

Si impasterà il viso con il fondotinta troppo scuro che le evidenzierà le rughe del collo troppo chiaro.

Si spruzzerà addosso troppo Lancome, metterà un reggiseno che le rialzerà e le riempirà i suoi sachettini vuoti.

Indosserà un abito troppo stretto, troppo scollato, troppo volgare, da puttana passata.

 

Finisco la sigaretta e do un ultimo sguardo dalla finestra.

I due ragazzi sono ancora lì: lui la sta ancora baciando.

La sta consumando e non sa cosa gli aspetta: un futuro con una donna che non sarà più lei, con un abito da troia e un culo che non riuscirà più a sfidare le leggi di gravità.

 

La neve continua a cadere fitta come i desideri irrealizzabili, leggera come i pensieri che lievitano fino a scoppiare, bianca come le notti in cui non dormo, grigia come il fumo della mia sigaretta quando esce dalla mia bocca come un’imprecazione.

 

E’ tutto reale nella mia vita.

Reale come quei due bischeri che stanno ancora allacciati a succhiarsi l’anima l’un l’altro, sotto la mia finestra.

 

“Sono pronta! Ma dove andiamo di preciso?”

“Andiamo in centro, Isabella.

Andiamo a vedere le vetrine.

E’ quasi Natale.

Fuoricorso.

Come te.

Come me.”

 

 

 

(Dicembre 2012)