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IL GIUDICE
di Taeli Valmont

Il sangue gocciolava dal tavolo lento, sgranando il tempo come una musica ripetitiva e noiosa.

Cesare osservava le gocce color carminio schizzare sul pavimento di marmo bianco e formare un disegno incostante ma curiosamente allegro che sembrava fare il verso ad una delle più straordinarie opere della pop art.

Gli occhi scuri di quella creatura smarrita guardavano il macabro spettacolo senza capire, senza comprendere cosa fosse successo. Il ricordo andava al pomeriggio della giornata precedente quando insieme a Sonia era andato a fare jogging nei verdi prati del parco Sempione a Milano, a ridosso del castello medievale. Era stata una giornata spensierata quella passata con l’amica di sempre. Ricordava il profumo dell’erba tagliata misto alla colonia francese di Sonia. Risentiva i rumori del parco, il cinguettio dei passerotti, il canto armonioso dei merli che proveniva dall’alto di quelle torri massicce che erano state ammirate dagli occhi di tante generazioni e poi ricordava la voce di Sonia, dolce guida di quel pomeriggio che non avrebbe mai dimenticato.

Tutto si era fermato nella sua mente che ricordava ogni cosa di quello strano giorno. Ora l’odore dell’erba tagliata era stato sostituito da quello dolciastro del sangue che continuava a colare, goccia a goccia, dal tavolo dove era stato faticosamente e pazientemente sezionato il corpo di Sonia.

Cesare non si muoveva da quel luogo familiare, da quella cucina dove aveva condiviso con Sonia buona parte della sua vita come un amante appasionato e devoto.

Sonia ora stava altrove, in qualche luogo lontano, fra cielo e terra, là, nel luogo segreto dove gli angeli imparano a volare e dove i sogni spiccano il volo per allietare le ombre delle nostre anime.

Lui l’aveva amata come non aveva mai amato nessuno. L’aveva ascoltata e aveva avuto tutto di lei: l’amore, la passione, la devozione, il rispetto.

Cesare pensava alla porta chiusa, alla notte maledetta in cui era piombato in un sonno profondo dopo aver bevuto quell’acqua dal sapore amarognolo.

E quando quella mattina aveva ripreso conoscenza di Sonia era rimasta solo qualche goccia di sangue che colava metodica dal tavolo al pavimento, disegnando il marmo candido con piccole stelle, vaporizzate con l’arte di un vecchio aerografo guidato dalla fantasia di un artista bizzarro.

I suoi occhi riprendevano la scena in bianco e nero come una telecamera diretta da un bravo regista, attento ai particolari, alle sensazioni, alle emozioni: ma quello non era un film di Rossellini era una realtà violenta e inaccettabile di cui Cesare aveva paura.

Sentiva ancora echeggiare nelle orecchie il suono di una voce maschile sconosciuta che pronunciava il nome di Sonia con un legggero accento tedesco. E poi il niente, il vuoto. La sua memoria non sarebbe andata oltre.

 

“Cesare – diceva ancora la voce – Cesare! “

Cesare si girò di scatto e riconobbe l’accento tedesco. Ora poteva finalmente vedere il volto di chi, ne era sicuro, aveva ucciso la sua Sonia. Con violenza affrontò il proprietario di quella voce odiosa, gettandoglisi addosso con tutta la sua forza.

Affondò con rabbia e piacere i suoi canini in quella gola rosea e molliccia dell’uomo che le aveva portato via la sua amata nella maniera più odiosa. Non sentiva nemmeno le mani degli agenti di polizia afferrarlo per il collare per cercare di fargli mollare la presa. Non ascoltava neppure le voci degli agenti che disperati gridavano contro di lui “Lo ammazza! Togliete quel cane dalla gola di que bastardo! Lo ammazza! Lo ammazza!”

Sentì solo il rumore dello sparo e il dolore acuto provocato da uno dei proiettili partito da una delle pistole degli agenti.

Sentì le forze venirgli meno ma era soddifatto perchè l’uomo dall’accento tedesco non respirava più. Ricordò per l’ultima volta il profumo di Sonia, le mani delicate della donna agganciare il guinzaglio di cuoio al suo collare e il profumo dei prati del parco Sempione, prima di accasciarsi sul pavimento e piombare nel suo ultimo sonno.

E’ morto, povera bestia! – disse uno degli agenti. Avresti dovuto solo ferirlo. E il crucco?

E’ andato anche lui – rispose il secondo agente.

Meglio così. Almeno non ammazzerà più nessuna donna questo bastardo. Ma per il cane mi spiace. E’ stato lui a riconoscerlo, è stato lui a perdere il suo bene più grande . E’ stato lui a fare giustizia.

Dispiace anche a me – rispose il primo agente, accarezzando il cane.

Peccato che il povero Cesare abbia mosso la testa proprio mentre miravo alla sua zampa – disse l’agente che aveva sparato al compagno – Mi spiace tanto per questo giudice a quattro zampe che ha spezzato la catena criminale del serial killer del Castello, mettendo finalmente la parola fine a questi assurdi delitti. (12 luglio 2011)