“La scarpa”
di Elisabetta Di Dio Russo
(liberamente ispirato a "Old Economy" di Michele Serra)
Sebastiano si era tolto la scarpa da tennis e l’aveva lanciata contro la parete dello spogliatoio.
Le lacrime gli rigavano il viso mentre con la racchetta ancora impugnata cercava di graffiare la vernice dell’armadietto del prestigioso sportin club lombardo.
“Scarpe di merda, racchetta di merda, campo di merda, partita di merda”.
Tutto nella sua mente era ‘merda’, mentre i genitori lo aspettavano ansiosi sulle gradinate del centro sportivo.
La scarpa era rimasta a testa in giù con le stringhe di un vivace colore arancione slacciate, mostrando la suola ancora sporca di terra color mattone.
Scontro tra civiltà. Occidente contro Oriente. Servizio. Battuta. Diritto. Rovescio. Smash!
Chi avrebbe vinto? Chissà. La scarpa aveva avuto la peggio.
La piazza non si animava più. Oggi i figli del Sessantotto lanciavano le scarpe da tennis sulle pareti. E domani? Ci sarebbero finiti loro appiccicati alle pareti come moschini?
In un capannone alle porte di una importante città orientale la piccola Han stringeva con l’agilità delle piccole dita il mazzo di stringhe colorate che le aveva consegnato la direttrice del reparto.
Quel giorno erano di un bel colore arancione.
Han andava fiera di quel suo gioco che durava tutto il giorno in cui si divertiva ad infilare lunghi lacci dai vivaci colori nei buchini di quelle buffe scarpe che lei non aveva mai indossato.
Faceva molto caldo nel capannone e l’umidità bagnava i sottili capelli della bambina che per ore infilava stringhe nelle scarpe di pelle destinate al mercato occidentale.
Han non sapeva nemmeno che quelle fossero scarpe e le chiamava ‘scatole di pelle con buchi’. Per Han le calzature consistevano in piccole pantofole di tela, da noi occidentali conosciute col nome di ‘cinesine’.
Sapeva di essere fortunata. Non come il suo povero amico Li Tong che infilava banali stringhe nere in brutte ‘scatole di pelle scura’. Il povero bambino indossava cinesine talmente consumate da doverle legare ai piedi con due vecchi pezzi di spago per poter camminare e, per non consumarle definitivamente, non appena arrivava nel capannone se le levava, rimanendo a piedi scalzi.
Eccitata dal suo bel fascio di stringhe arancioni Han si stava dimenticando che era l’ora del pasto.
Ma la sirena della fabbrica suonò così forte da riportarla alla realtà.
Posò sul bancone da lavoro il suo carico prezioso di stringhe e raggiunse gli altri giovani operai nel capannone adibito a mensa per ricevere la sua razione di riso e verdure.
Le si avvicinò Li Tong con la ciotola del riso tra le mani e la bocca piena.
“Mi hanno detto che hai visto le nuove stringhe, di che colore sono?”
“Arancioni. Sono bellisssime e le tue di che colore sono?”
“Nere. Non sono fortunato io!”
La vecchia guardiana del reparto che era solita farsi chiamare ‘Direttrice’ dai piccoli operai si avvicinò ai due bambini per partecipare ai loro discorsi.
“Allora Han, ti piacciono le tue nuove stringhe?”
“Sì Direttrice. Ma anche Li Tong vorrebbe avere delle belle stringhe arancioni però gli capitano solo stringhe nere!” Rispose ingenuamente la bambina.”-Direttrice voglio anch’io stringhe colorate da infilare nelle scatole di pelle!” Fece eco il bambino sempre con la bocca piena.
La vecchia guardiana sorrise
“Povero Li! Qualcuno deve pur infilare i cordoncini neri!”
Poi guardando i piedi nudi del bambino si rese conto della miseria di quei due arrivati dalla campagna, come la maggior parte dei bambini poveri che lavoravano nella fabbrica. La donna aveva saputo da alcuni operai che molti bambini, attraverso organizzazioni umanitarie, riuscivano a lasciare il Paese. Proprio qualche giorno prima, ascoltando di nascosto le indiscrezioni di un operaio, aveva sentito parlare di un nuovo gruppo di bambini in partenza per una destinazione estera sconosciuta, che avrebbe raggiunto la misteriosa meta con un viaggio clandestino.
Pensò di parlare con l’autista del camion che avrebbe avuto in consegna i ragazzini con l’intenzione di trovare un modo per sistemare a bordo anche i suoi due protetti. Quella sera stessa lo raggiunse al ‘solito posto’ dove, secondo le indiscrezioni ascoltate, stava in attesa di nuova ‘merce’ da portare all’estero.
L’uomo che si faceva chiamare ‘Tom’, come un ‘perfetto occidentale’, come lui stesso amava definirsi, era appoggiato al grosso tir e fumava una sigaretta di marca straniera. Aveva un vistoso anello d’oro alla mano sinistra e tre denti di metallo completavano il suo inquietante sorriso. Piccolo di statura, magro e con i capelli striati di un brutto biondo giallognolo sostenuti dalla permanente, simbolo di una ostentata agiatezza che lo faceva apparire diverso dagli altri uomini orientali che guidavano i grossi autocarri.
Quando vide la vecchia avvicinarsi fece finta di non vederla per darsi un certo contegno e voltò il viso nella direzione opposta della donna.
“Buongiorno Tom”.
Disse la Direttrice cercando di catturare la sua attenzione
“Giorno”. Fece l’uomo con aria di superiorità.
“Quando farai il prossimo viaggio?”
“Perchè lo vuoi sapere?” Chiese l’uomo scrutandola a fondo, sputando un pezzettino di tabacco che gli si era ficcato tra i denti.
“Perchè vorrei pregarti di far viaggiare con te due piccoli ragazzi e portarli in occidente dove potrebbero avere una vita migliore”. Rispose la vecchia.
“Quanti anni?”
“Sei e dieci”.
“Sono sani?”
“Sì, e gran lavoratori”.
“Cosa ci guadagno?”
“I miei risparmi”.
L’uomo sorrise. Sapeva che la poveretta poteva contare sicuramente su una misera somma di denaro ma decise di accettare ugualmente pur facendo il sostenuto.
“Devo pensarci”.
Nell’ appartamento che dava su una delle vie più importanti di Milano, Sebastiano stava conversando animatamente con i genitori.
“Tutti i miei amici si comperano le partite di tennis. Solo voi non siete in grado di corrompere gli insegnanti perchè siete dei poveri tirchi arricchiti!”
I genitori seguivano impettiti il discorso del figlio senza proferir parola.
“Non voglio più indossare quelle scarpe di merda che mi fanno scivolare sul campo ogni volta che devo fare un servizio!”
La madre con tono rammaricato aggiunse premurosa:
“Ti assicuro che ne avrai presto di nuove”.
L’autocarro era posteggiato sul ciglio della strada, poco distante dalla fabbrica di calzature.
Scarsi bagliori di luce stavano timidamente annunciando il nuovo giorno.
La direttrice teneva per mano i due bambini e si dirigeva a passo svelto verso il tir, guardandosi attorno nervosamente per paura di essere vista dai lavoratori che riposavano nei pressi della fabbrica.
“Presto!” Fece l’uomo.
“Eccoci!” Disse la donna mentre consegnava bimbi e risparmi nelle mani dell’autotrasportatore.
Un paio di carezze ai bambini ancora assonnati per l’ora, un saluto, qualche lacrima per congedarsi dai due piccoli che sapeva non avrebbe più rivisto.
I bimbi salirono provvisoriamente a bordo dell’abitacolo del grosso camion insieme al conducente per iniziare una vita nuova.
In seguito Tom fece sistemare i due nel doppio fondo del tir.
Lo spettacolo che si presentò alla polizia di frontiera qualche tempo dopo non fu dei più felici. Tante piccole anime ridotte pelle ed ossa guardavano con gli occhi socchiusi non più abituati alla luce per la permanenza in quel luogo buio, stretto e maleodorante, i poliziotti che stavano perquisendo il tir, sconcertati e impressionati dalla scoperta drammatica.
L’odore che usciva da quella tana era tremendo.
Pochi piccoli esseri dalle sembianze spettrali e movimenti irreali, uscirono silenziosamente ed ordinatamente, uno dopo l’altro, dal doppio fondo del camion mentre altri rimasero immobili, senza vita sul fondo scuro di quella bara con le ruote.
In tutto 15 bimbi rimasti uccisi dagli stenti o soffocati dall’aria scarsa di quella trappola troppo stretta e insalubre e 8 bambini sporchi, disidratati e affamati, al limite delle forze con gli occhi smarriti, terrorizzati da quel viaggio massacrante ed allucinante guardavano spaventati gli uomini in divisa cercando di stare vicini tra loro tenendosi per mano.
“Poveri bambini...Non è possibile!” Disse uno dei poliziotti mentre i colleghi ammanettavano l’autista che cercava di scappare.
Il giorno dopo Han se ne stava davanti alla tavola apparecchiata del centro di prima accoglienza allestito velocemente dalla più vicina associazione cattolica.
Gli occhi vitrei sembravano fissare oltre il piatto della minestra, oltre il viso premuroso delle suore, oltre le pareti dello stanzone dell’associazione umanitaria.
Non mangiava.
Pensava al suo amico Li Tong che non avrebbe più visto.
Il bimbo era stato scaraventato fuori dal camion durante il viaggio, di notte.
L’autista si era accorto che il bimbo era morto per gli stenti e così aveva deciso di sbarazzarsene come ci si sbarazza di una carcassa di animale che non può più essere utile.
Han stringeva nelle sue manine un paio di stringhe nere che le aveva regalato il bambino prima della partenza.
Le stringeva forte e pensava a quando si incontravano durante la pausa lavoro nel refettorio della fabbrica di scarpe.
Quanta fame aveva Li Tong!
Nel negozio Sebastiano era intento a provare nuove scarpe da tennis insieme alla madre che lo guardava con ammirazione. La madre pagò soddisfatta con la carta di credito 178 euro per una buona dose di orrore che veniva da un mondo diverso e che avrebbe fatto sorridere di piacere per non più di una mezz’ora il suo bimbo.
Lei che amava tanto i bambini non sapeva che per far sorridere suo figlio un altro bambino avrebbe pianto.
Han guardava con stupore le scarpe da tennis che le suore dell’associazione le avevano consegnato insieme a qualche vestito usato, frutto della beneficenza di qualche famiglia benestante.
La bambina guardava con sorpresa quelle scarpe che conosceva così bene. Riconobbe i lacci di colore arancione che tanto piacevano a Li Tong.
Ora quelle scarpe le aveva ai piedi.
Ne tolse una per guardarla meglio: non era una scatola di pelle come aveva sempre pensato.
Era una scarpa!
La osservò con attenzione.
Poi, lentamente, tolse le stringhe arancioni e le sostituì con quelle nere che le aveva regalato il piccolo Li Tong.
Dopo aver compiuto quel piccolo rito una debole luce illuminò lo sguardo della bambina.
Accarezzò le stringhe scure, unico contatto che aveva con il suo piccolo amico. (Racconto tratto dall’antologia “Attenzione! Uscita operai” edita da No Reply)
Elisabetta Di Dio Russo è nata e vive a Milano. Giornalista pubblicista ha collaborato con diversi giornali tra cui L’Avanti e L’Opinione. Attualmente è alla guida del quindicinale culturale on-line Erzebeth.
No Reply è un laboratorio nato nel 2003 in nome dell'interazione fra editoria, musica, video, grafica, fumetti, per riflettere (sul)la cultura contemporanea in maniera trasversale, attraverso la ricerca formale sulla lingua e l’incontro con i più diversi generi musicali.
Si ringrazia Leonardo Pelo di No Reply per aver acconsentito alla pubblicazione del racconto.
“Attenzione! Uscita operai”
Libro + cd
(No Reply – Pagine 112 - € 19,00)
www.noreply.it