E’ impossibile non abbinare il nome “Lella” a una delle più belle canzoni di tutti i tempi, alla Lella di Edoardo De Angelis.
De Angelis è un artista che non ha bisogno di presentazioni, un cantautore che sa fare canzoni alla vecchia maniera, come si faceva all’epoca dei cantautori.
Un cantautore di quelli “veri” che non smette mai di affascinare con il suo modo di fare musica.
In questa intervista Edoardo De Angelis racconta come è nato Historias, il suo nuovo album e spiega come musica e politica sono cambiate, dal Sessantotto ad oggi.
Nel suo nuovo album ci sono ritmi, riferimenti alla letteratura, alla politica sudamericana, da Sepùlveda a Che Guevara. Come mai questa scelta?
La scelta nasce da due precise fonti: la visione del film di Walter Salles “I diari della motocicletta”, compreso l’ascolto della meravigliosa colonna sonora e dalla lettura di Sepùlveda, in modo particolare dei suoi articoli e saggi.
In uno di questi vengono citate le cinque parole alla base della umana letteratura: pane, pace, lavoro, giustizia, libertà. Le cinque parole che Marco Paolini invoca nella mia canzone “Cinque parole”.
Historias non è un semplice album di canzoni ma un’antologia di racconti tradotti in musica. Come nascono le sue storie?
Nei modi più diversi: ispirate ad altre storie come è capitato in “Historias”, ispirate alle mie riletture di personaggi storici (Waterloo), biblici (La stella di Davide, Rosso), leggendari (Una storia americana, Ramirez), personali (La casa di Hilde) o anche di assoluta fantasia (Lella, Sulla rotta di Cristoforo Colombo).
In questo album lei ripropone Lella che nella nuova versione diventa una ballata struggente. Quanto è legato a questa canzone?
Tra questa canzone e me esiste un rapporto di amore-odio. Lella è stata una canzone decisamente importante per il mio lavoro ma poi mi ha come “imprigionato”, rinchiuso nella sua gabbia. Si è sempre messa in gara, con l’aiuto dei media, con le mie storie nuove, riproponendosi con prepotenza ad ogni nuova uscita. Devo dire che questa nuova versione latinoamericana, però, le dona la freschezza di una nuova verginità.
Dai suoi inizi ad oggi secondo lei quanto è cambiata l’attenzione del pubblico nei confronti della canzone d’autore?
Alti e bassi. Negli anni Settanta, all’inizio, rose e fiori, tutti diventavano “cantautori”, due accordi di chitarra segnavano una superficiale appartenenza. Dispute letterarie sulla possibilità di fornire un passaporto a chi, come Battisti o Cocciante si occupavano solo della parte musicale. Poi, passata la moda, trascuratezza, poca attenzione, fino alla caccia alle streghe e al riflusso degli ultimi anni Ottanta e dei Novanta. Poi un lento riprendere, grazie all’affacciarsi di autori come Daniele Silvestri, Samuele Bersani, Vinicio Capossela. Poche perle dai grandi “Vecchi”. Oggi una grande confusione artistica e mediatica, non si capisce molto, difficile un’interpretazione analitica che non rischi di venire subito capovolta.
Il mondo discografico è oggi molto diverso da quello che lei ha conosciuto quando ha iniziato la sua carriera artistica?
Completamente, del tutto.
Allora tutto era all’interno delle case discografiche. Oggi è tutto esterno, “privato”, non ci sono praticamente più compagnie italiane se non le indipendenti che comunque soffrono molto. Pare che per i supporti non esista più mercato. Per la musica esisterebbe se qui in Italia la cultura, come la scuola, come la sanità non fossero i primi campi nei quali si passa con la falce... Il popolo tace ancora. Dagli studenti, dai ragazzi si sta rafforzando una voce di protesta che potrebbe avere conseguenze. Il Sessantotto, benedetto o maledetto, cominciò proprio dall’università di Berkeley, se non vado errato...
Perchè secondo lei oggi si fa meno politica nelle canzoni rispetto agli anni Settanta?
Per me non è mai stato importante o consigliabile “fare politica” dichiaratamente attraverso le canzoni. Così come è vero che le canzoni, come le altre forme di espressione – pittura, cinema letteratura, fotografia – sono di per sè azioni politiche, se manifestano contenuti di idee. Sono comunque bandiere, meglio se sincere, figlie dei tempi e non semplicemente strumentali. E poi il problema è che non si fa politica in assoluto, non solo nelle canzoni. Però come dice Niccolò Ammaniti? Io non ho paura...
Come lei stesso ha appena accennato vi è stato un risveglio della “piazza” da parte del mondo studentesco italiano. Cosa ne pensa: un nuovo Sessantotto?
Inavvertitamente ho già dato la mia risposta. Sono passati quarant’anni, forse un po’ di pulizia non farebbe male. Sarebbe bello se le faccende politiche fossero affidate dalla gente ad una gestione principalmente femminile.
Le donne sono più serie, responsabili, intelligenti, meno inclini agli inciuci e alle mafiosità.
Deve essere per questo motivo che gli uomini si guardano bene dal dare loro lo spazio dovuto.
A suo avviso l’elezione di Barack Obama, quanto influenzerà il destino degli Stati Uniti e del mondo?
Potrebbe segnare l’inizio di un cambiamento importante, dal punto di vista dell’etica nella politica, nell’economia, nella società. Purchè lo lascino campare e non diventi un bersaglio per i sicari delle lobbies e delle mafie.
Cosa significa essere un cantautore oggi?
Come sempre, interpretare le storie dell’uomo: il suo rapporto con il soprannaturale, con gli altri uomini, i suoi sentimenti, le sue speranze, le sue lotte. E nuovamente raccontare all’uomo, viste da altri occhi.
Come vede il futuro della Canzone d’Autore?
Ci sarà sempre qualcuno che dimostri voglia, necessità di raccontare la vita. Speriamo che le voci che abbiamo dentro imparino a volare in alto e a rendersi visibili da tutti, prima di venire abbattute dai fucili dell’ignoranza, della paura e dell’indifferenza. E poi, dal punto di vista artistico, vedo ed auspico un riavvicinamento della Canzone d’Autore alla musica popolare. Un ritorno a casa.
Qualche nome?
Brassens, Brel, Woody ed Arlo Guthrie, J.J. Cale, Dylan, Mark Knoplfer e certamente De André. Poi via per i nuovi (o antichissimi?) mondi con Yossou N’Dour, Noa...
Devo continuare?