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L'INTERVISTA - Ennio Rega: "L'Italia è un Paese che non sogna più"
di Elisabetta Di Dio Russo

Tra gli album più interessanti di ultima pubblicazione c’è “Arrivederci Italia”, di Ennio Rega. L’album è un’attenta analisi di ciò che sta succedeno nel nostro Paese e di una società sempre in bilico tra bianco e nero, con drammatiche sfumature di grigio che costituiscono la nostra quotidianità. Lo stile di Ennio Rega, raffinato ed essenziale, a tratti tagliente, ci riporta nell’era di chi ha fatto grande la canzone d’autore.

In questa intervista il cantautore racconta la sua Italia, quella che vorrebbe, con qualche riflessione sulla musica in tempo di crisi.

 

 

Perchè questo titolo per il suo nuovo album, “Arrivederci Italia”?

Come sempre un’ora prima di essere convocato dal grafico per l’impaginazione del booklet, mi accorgo di non avere un titolo. Le assicuro che è un’ora intensa.   

Questa volta ho fatto un’eccezione citando  un verso “popolare”, tratto da uno dei brani del disco “Italia irrilevante”. Titolo semplice ma intenso se lo si confronta con il lavoro che in sé contiene. Con la mia Italia ci ritroveremo… lì per strada, non a parlare di tatuaggi ma ad urlare di filosofia, ognuno forte del proprio punto di vista. Saluto questo Paese che non sogna più, dove la gente non ha più un’idea, un punto di vista personale.

 

L’album è diventato anche uno spettacolo teatrale che ha debuttato a Roma il 24 luglio. Ce ne vuole parlare?

E’ un viaggio (psicoanalitico), con i miei genitori, da Roma al  mio paese nativo nel salernitano,  paese di cui ho raccontato  in molte mie canzoni come Lucciole, Zazzera gialla, Ballata della via larga, Terrone, Lo scemo dice, Maddalena canterina, Oreste è solo, Rosa di fiori finti. L’enorme amore per questo luogo  è alla base del monologo da me scritto, in cui  innumerevoli sono i risvolti comici. Protagonisti di questo viaggio sono sia la figura “donchisciottesca” di mio padre che il dialogo con Jack il mio amico immaginario, simbolicamente in scena con me. E’ uno spettacolo che imparerò a definire meglio nel tempo, non è teatro di narrazione nè teatro canzone. Non è Paolini e nemmeno Gaber. Ecco, volendo definirmi in quel contesto, direi che sono lì in mezzo con l’originalità di aver concepito un testo teatrale dallo stile perfettamente calzante alle canzoni. A fine spettacolo credo che resti la sensazione forte di aver assistito ad un concerto “completo”. Quest’estate ne abbiamo fatto solo un’anteprima ma, la Prima Nazionale, è prevista a Roma a fine ottobre, un'altra data certa è in teatro a Napoli dal 31 gennaio al 3 febbraio 2013. 

 

Come mai ha deciso di portare il suo album sul palcoscenisco con una veste diversa dalla formula del concerto?

Io nella musica sono fin troppo spudoratamente teatrale, tanto vale spingermi più  in fondo. Ma  pur amando il teatro di cui sono impastato, la mia vita, il mio sogno, la mia passione ed il mio orgoglio resta  la musica. “Vivo perché suono”, questa non è mia è di Lutte Berg. Non è uno spettacolo teatrale ma di teatro e musica in un tutt’uno. Quello che veramente voglio di più, l’ho già detto, è esprimermi suonando.

 

Qual è la canzone dell’album a cui lei è più legato?

Nel live mi piace cambiare, aggiungere o togliere ogni sera qualcosa dal disco. Le canzoni che più si prestano a questo gioco sono quelle che preferisco, che resistono nel tempo, che ho più voglia di suonare. Il bello di questo mestiere è che non è un lavoro, ogni sera si cambia un po’ a   piacimento. Non amo la compagnia di giro in senso impiegatizio. 

Non ho una mia canzone a cui sono più legato, trovo che siano tutte molto interessanti e di alto valore “artistico”, ogni canzone ha un sua ragione d’essere e di tutte il tema è lo stesso, non riesco a scegliere. E’ un disco “notevole”: mi perdoni l’insolita presunzione. Sono sincero.

 

In questo momento particolare di crisi l’Italia sta vivendo un tempo drammatico anche per quanto riguarda la musica e tutta l’arte, in generale. Come vede il futuro della musica italiana?

La storia della canzone italiana ha avuto grandi autori ed interpreti e quando tutto si avviliva nello squallore di un pop scemo ed insulso dagli anni Ottanta in poi, pochi cantautori hanno contrastato questa tendenza a prendere sul serio certe aspirazioni della gente, prive di forma critica, facendo tuttavia attenzione a non dileggiare il sentimento  intimo  di illusioni e credenze popolari.

Nessuno che avesse voglia di un appassionato sarcasmo, autentico e positivo per contrastare tutta la nauseabonda retorica insita in quelle orribili confezioni di banalità sconfortanti, vergognose canzonacce. Scomparso il soggetto umano nella vita sociale dell’ultimo ventennio, esorcizzato dalla magia della tecnologia, credo non ci sia futuro che non debba ripartire da zero. E’ però una sfida interessante: ci si porrà radicalmente il problema  di che idea di uomo si vuole far continuare a vivere. La musica gira intorno all’uomo e alla sua luce innata per natura. Vedo la musica del tutto liberata da quelle leggi del mercato che sto odiando ogni giorno di più. Il mercato è un tema per psicopatici (c’è sempre l’eccezione che conferma la regola). Al centro è l’uomo non il mercato.

 

Cosa significa essere “cantautori” oggi rispetto agli anni d’oro in cui la Canzone d’Autore era trattata con più professionalità, da parte degli addetti ai lavori e dai media che ne avevano più rispetto e dedicavano maggior attenzione alla buona musica?

Precisiamo che nel cosiddetto periodo d’oro la buona musica non la facevano certo i cantautori, spesso ridotti, dalle case discografiche, a manieristi di se stessi.

La buona musica in Italia la facevano Area, PFM, Banco, Le Orme, Osanna, Perigeo. Se per buona musica intende genericamente canzoni intelligenti (anche nel senso di canzoni “contro”) allora tra i più forti c’erano Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè, Piero Ciampi, Giorgio Gaber, Rino Gaetano. Essere cantautori non vuol dire più nulla di nulla, è  una definizione urtante e anacronistica. Un cantautore è tale anche quando dà contributi umili, sinceri, inutili, appesantiti dalla vita reale, miranti alla giustizia per chiunque. Un cantautore non va ad allietare le serate al pubblico, gliele rovina le serate, costringendo lo spettatore a ripensamenti e riflessioni sul presente da vivere in funzione di un futuro utopico. Se cantautore vuol dire lanciarsi “contro” i marciumi della società, rilevare le logiche mafiose di certe accolite al di sopra di ogni sospetto, rischiare la propria libertà per urlare la libertà di tutti, allora la parola cantautore significa molto. Se così non è rinunciamo alla stupida definizione di cantautore.Nondimeno trovo cosa buona e giusta definire cantautore Gigi D’Alessio, più meritevole di moltissimi palloni gonfiati della canzone d’autore. Se non altro sa suonare e cantare. Sarà riscoperto un giorno, una sorta di cult: suggerirei per questo a certe rassegne e festival della canzone d’autore di invitarlo quanto prima…

 

Nel suo album lei bacchetta anche gli angoli più nascosti della nostra società e ne analizza gli aspetti più crudi, le anomalie, le ingiustizie, Com’è l’Italia che vorrebbe?

Per prima cosa va detto che questa  preoccupante deriva culturale sta producendo analfabetismo di ritorno, la società dipende dall’estrema fragilità di un sistema di cui non ha controllo. Negli ultimi venti anni questo Paese striscia col culo per terra, basso ma così basso in ogni senso, che non mi sarei mai aspettato. Che dolore prenderne atto

Questa è  un’Italia cafona, arrogante, violenta, che non sa ascoltare, che ti urla addosso ancora prima che parli. Vorrei un’Italia dolce, fondata sui valori non retorici insiti nella parola “amore”.Ma si sa io sono solo un cantautore, uno tutto fantasia, che non sposta niente che non cambia niente, spero nella scuola pubblica però, hai visto mai: nuove generazioni in grado di ascoltare, leggere e capire a fondo, già alla prima, parole e musica per quello che veramente sono.

La mia meraviglia sarebbe una  bilancia che finalmente funzioni.

 

www.enniorega.com

 

 

 

(Settembre 2012)