Ricerca Archivio
 
INTERVISTA: Max Manfredi
di Elisabetta Di Dio Russo

Max Manfredi è forse uno degli ultimi poeti della canzone d’autore. Qualcuno lo ha definito  “l’ultimo dei poeti maledetti”, paragonando l’artista ad un moderno Baudelaire.

Schietto e misterioso, dallo stile originale e aristocratico Max Manfredi scrive canzoni uniche, incapaci di invecchiare che, come il buon vino, migliorano nel tempo.

Ironico, cinico, attento, passionale: nelle sue canzoni, così come in questa intervista, non è tipo da mandarle a dire e non concede sconti a nessuno, sia che si parli di musica, di lingua italiana, di società o di altri argomenti.

 

I testi delle sue canzoni hanno sempre qualcosa di drammatico o nostalgico: se pensiamo al protagonista de “L’intagliatore di santi”, o a canzoni come “Freddo”, “Centerbe”, “Coriandoli d’acqua”. Perchè?

 

Perché la canzone è drammatica e nostalgica. Tolti certi testi per ballo o certe strofe da osteria, che hanno una funzione dichiaratamente giocosa; dal fado, al blues, al tango,  al repertorio napoletano classico, fino a “wish you were here” dei Pink Floyd, la  scena emozionale della canzone è sempre quella.

 

Le sue canzoni però non disdegnano l’ironia unita a quel pizzico di cinismo, utilissimo per descrivere la società attuale: “La ballata degli otto topi”, “Tra virtù e degrado” ne sono un’esempio.

Cosa non le piace della società in cui viviamo?

 

La società attuale impone invece che proporre. E’ fondata sulla delinquenza e su una concezione delinquenziale del lavoro. Confonde l’incremento del Pil con la crescita nella qualità della vita. Non tiene conto della volontà dell’individuo e la disperde in un processo statistico utile al sistema. Ha un odio personale contro la lingua italiana, che invece sarebbe così bella, fino ad inventarsi termini ripugnanti come “cantautorato”.

 

Conosco il suo odio personale contro certi termini a suo avviso mal utilizzati nella lingua italiana. Però vorrei tornare alle sue canzoni che sono sempre molto introspettive ma anche fantasiose, originali. In “Tabarca” per esempio lei parla di una terra dove l’amore è vietato, ne ”Il Fado del dilettante” ironizza con le strade ripide di Genova, in “Danza composta” passa da un inizio alla Walt Witman per poi proseguire con rapidi flash di situazioni grottesche, strane, legate da un filo conduttore che a volte sembra sfuggire a chi presta attenzione al testo della canzone. Perchè questa ricerca dell’originalità?

 

Non la cerco, semmai mi trova. E poi certe situazioni sono bizzarre di per sé.

Nella storia dell’Isola di Tabarca ci fu effettivamente il divieto di sposarsi, per motivi di sovrappopolazione. Quando i tabarchini si trasferirono all’isola di San Pietro, in Sardegna, ci fu un’esplosione di matrimoni.

“Danza composta” snocciola contrapposizioni, un procedimento poetico tipico a molti brani della tradizione popolare.

Poi mi piace frequentare alcune scene liriche già abitate… sarebbe imperdonabile che mi prendessi e le prendessi sul serio: l’ironia mi serve come lasciapassare.

 

Le sue musiche risentono molto delle influenze dei ritmi popolari internazionali.

Scriverebbe mai una canzone rock con arrangiamenti elettronici?

 

L’ho fatto almeno due o tre volte, nei primi due dischi. Ora ho un vago progetto di convertire in rock certi canti medioevali, i cosiddetti Carmina Burana. Son canti di protesta, di sesso, di bevute, di gioco: nel senso della celebre contrapposizione celentanesca, sono già rock.

 

Quando si parla di Max Manfredi è inevitabile non fare riferimento a “La fiera della Maddalena” brano che lei ha scritto ed interpretato con Fabrizio De Andrè. Non è un po’ stufo che il suo nome sia così spesso collegato a quell’episodio della sua carriera artistica?

 

Dice bene nel suo lapsus: è inevitabile NON fare.

 

Chiedo scusa!

 

Sarebbe meglio non fare. Ma ci vorrebbe un minimo di fantasia, ed è merce rara.

E’ la questione del dito e della luna. Una volta sentii una signora alquanto ottusa affermare che dopo De André era inutile ascoltare qualcun altro (me, nella fattispecie). Anche lo scienziato Galileo ebbe problemi simili, quando i dotti si rifiutavano di guardare le macchie lunari col cannocchiale. Mitologicamente, anche la strega Nocciola con Pippo.

Per fortuna, per una persona così ce ne sono almeno cinque che invece, attraverso la “raccomandazione” postuma di De André, s’avvicinano al mio lavoro e se ne innamorano.

L’esperienza della Fiera, cantata insieme a Fabrizio, è stata bella comunque. E quella canzone è presente in molte raccolte  straniere, dai nomi improbabili e con ancor più improbabili compagni di cordata.

 

Com’è nata quella canzone?

 

“La fiera della Maddalena” l’ho scritta dopo avere esplorato e, nel mio piccolo, colonizzato, altri territori poetici e musicali, alquanto più ardui. E’ stato come un ritorno, e io la definivo “la traduzione di una canzone popolare che non c’è”.  Un ritorno ad uno stile immaginoso, piano e sentimentale.

Fabrizio la paragonava alla “Baronessa di Carini”: una canzone di origine colta, si fa per dire, e diretta a tutti.

 

Dopo aver pubblicato “L’intagliatore di santi” e “Live in blu”, c’è stato un lungo silenzio discografico. Una pausa è dovuta più alla sua voglia di riflettere o alla discografia che invece ha poca voglia di riflettere sugli artisti da lanciare o rilanciare?

 

E’ dovuta alla mia pigrizia ed alla latitanza di validi interlocutori. Dischi tanto per farli, è una pratica che lascio ai miei più giovani ed entusiasti amici.  Riflettere è far di virtù necessità.

A me però non si può applicare il termine “rilanciare”: ché non si rifocilla chi mai si focillò.

E non si rilancia chi non fu mai lanciato.

Il mio satellite-madre gira da solo, ed è un piccolo miracolo che incontri tanti altri satelliti sulla sua strada.

 

Vi è qualcosa che lei rimprovera alla discografia italiana?

 

“Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, per citare un famoso poeta caro a Benigni.

 

Quest’anno lei ha intensificato i concerti. Qual è stata l’accoglienza del pubblico?

 

Sempre migliore, devo ammetterlo. Una volta dissi, per scherzo, che i tempi non erano abbastanza acerbi per un artista come me. Evidentemente adesso lo sono!

Forse per la bravura dei musici, forse per aver imparato a sorridere ogni tanto mentre suono  vedendo il film di un concerto di Cat Stevens, o forse, come dicono quelli veri, quelli tosti, per il potere di fidelizzazione implicito nel prodotto.

 

A quando un nuovo disco?

 

Per fare una previsione ragionevole, come possono esserlo le Centurie di Nostradamus, quest’inverno che viene.

 

(Foto di Guido Castagnoli)