Il racconto è liberamente ispirato all’omonima canzone di Max Manfredi
Aveva aperto gli occhi a fatica e subito li aveva richiusi per quel raggio di sole pungente che penetrava dalle vetrate della cattedrale.
Si sentiva la testa pesante, come dopo una sbronza, ma sapeva che non poteva essere possibile perché lui era sempre stato astemio.
Aveva la bocca impastata da cui usciva uno strano umore come di guasto, stantio che gli colava piano dall’angolo della bocca.
Era sdraiato sul pavimento trecentesco, su quelle pietre gelide che avevano visto, con gli occhi del passato, intere generazioni inginocchiarsi e pregare per gli orrori, le guerre, le epidemie, le carestie.
Un odore dolciastro e nauseante che si mischiava all’odore del legno, a quello della cera delle candele e dell’incenso utilizzato per la messa della sera prima, pareva invadere l’oscurità di quel vecchio luogo di culto, rotta appena da quel bagliore accecante che gli pesava sugli occhi.
Cercava di capire dove si trovava e mentre i suoi occhi si abituavano gradualmente a quel filo di luce sottile ma intenso, pian piano le immagini si facevano più nitide.
Riconosceva le figure sacre delle vetrate colorate da dove proveniva quella luminosità, riconosceva il pavimento dalle grosse pietre levigate su cui si trovava.
Vedeva gli altari dei santi, le cassette delle elemosine, i rimasugli di cera delle candele accese dai fedeli, i quadri di legno che raffiguravano le varie tappe della via crucis che lui stesso anni prima aveva intagliato.
Vedeva la perfezione geometrica della disposizione delle panche antiche dove i fedeli si accomodavano per assistere alle funzioni religiose.
Tutto gli pareva irreale: il suo stordimento, la chiesa deserta, quell’oscurità angosciante trafitta appena dal raggio di luce, quell’odore insopportabile che lo nauseava e quello strano dolore così acuto che percepiva in tutto il corpo e che tanto somigliava ai postumi di una bastonatura.
Non capiva perché se ne stava lì, solo, riverso sul pavimento in quel luogo di culto così solenne che gli dava soggezione.
Non riusciva a muovere le gambe.
Trucioli di legno intrisi di un liquido scuro e rappreso erano ovunque, incollati sulle pietre che costituivano l’altare e, come impronte malefiche, si dirigevano verso l’inginocchiatoio del confessionale di ebano su cui erano state intagliate piccole figure sacre e dove una sagoma scura, imponente, appoggiata come un enorme sacco di juta emanava sbuffi
macabri e cadenzati simili ad un lugubre tremito.
Ricordava quell’ultima funzione dove il coro delle novizie aveva intonato cupe melodie sulle note prodotte dalle canne dell’organo antico suonato dalle mani tremanti del vecchio padre organista.
Risentiva ancora il suono possente di quelle note forti e come la sera precedente sentiva un brivido che gli scuoteva le ossa.
Si accorse di sussultare proprio come le mani dell’organista e di battere i denti.
Aveva freddo, voleva alzarsi ma capiva che non ci sarebbe riuscito.
Era come immobilizzato e con gran fatica cercava di strisciare con il corpo sul pavimento facendo leva sui glutei indolenziti.
Si sentiva le mani umide e appiccicaticce.
Istintivamente le pose davanti agli occhi.
Erano intrise dello stesso liquido scuro e maleodorante che vedeva sul pavimento e che, illuminato dal raggio proveniente dalla vetrata, lo faceva apparire rossastro.
Un grido terrificante ma familiare che rimbombò nella cattedrale e che non si accorse di emettere gli fece capire che quello strano liquido era sangue.
Riuscì a scorgere dei denti umani e vide poco lontano una testa con lunghi capelli grigi e macchiati con lo stesso liquido rosso.
Vide il roncolo con cui aveva intagliato tante madonne, tanti santi, tanti angeli: c’era infilzato qualcosa di tondo.
Non ci volle molto per capire che si trattava di un bulbo oculare, lo stesso che mancava a quella testa mozza che stava sul pavimento.
Voleva fuggire ma non poteva muoversi, il dolore alle ossa, la paura lo paralizzava.
Sentiva dei passi provenire alle sue spalle: tac tac tac.
Era un uomo col bastone, probabilemente zoppo.
Tac tac tac.
Se fosse stato un uomo che non si appoggiava al bastone per camminare i “tac” sarebbero stati solo due.
Tac, tac, tac.
Poteva essere l’assassino?
Tac, tac, tac.
Poteva essere lui l’autore della testa mozzata, delle rifiniture macabre fatte con il roncolo con cui lui aveva intagliato tante figure sacre?
Tac, tac, tac.
Sentiva il suo respiro farsi sempre più affannoso.
Tac, tac, tac.
Quei passi erano sempre più vicini.
Tac, tac, tac.
Voleva alzarsi.
Non riusciva.
Tac, tac, tac.
Sentiva i passi ancora più vicini e la paura salirgli su per la gola.
Tac, tac, tac.
Poi un’ombra nera lo inondò improvvisamente e un dolore acuto gli fece perdere conoscenza.
Si svegliò nel letto di quella stanza che aveva preso in affitto durante il soggiorno per compiere alcuni lavori di restauro su alcune opere di legno della cattedrale.
La testa gli doleva ancora.
La luce filtrava dalle persiane, costringendolo a socchiudere gli occhi.
Si alzò lentamente e spalancò la finestra.
Vide alcune persone camminare lungo la strada di quel piccolo borgo antico.
Sentì i rumori del giorno venirgli incontro.
Poi cominciò a ricordare.
L’interno della cattedrale, la testa mozzata, il roncolo con l’occhio infilzato.
Andò a prendere la cassetta degli attrezzi, la aprì con l’affanno prodotto dai ricordi, cercò il roncolo che aveva visto sul pavimento della chiesa.
Non c’era.
Frugò nella cassetta con impeto, gettando buona parte dei suoi utensili di intagliatore a terra, ma non lo trovò.
Eppure doveva esserci.
Lo aveva riposto lui stesso insieme agli altri arnesi che utilizzava per scolpire il legno.
Un grido gli si bloccò in gola.
Allora capì che non aveva sognato.
Tutto era vero, tragicamente reale: il sangue, la testa mozzata, il roncolo conficcato nell’occhio, l’ombra nera che lo aveva sopraffatto.
Si vestì in fretta.
La testa ora gli pulsava.
Quando fu in strada si diresse verso l’edicola per comperare un giornale locale.
Andò alla pagina della cronaca.
Vide la foto della cattedrale ed il cuore cominciò a martellare nel petto.
Lesse l’articolo d’un fiato, ma non vi era scritto nulla di ciò che temeva.
Solo una breve recensione storica sul monumento, indicato tra i preferiti dei turisti che visitavano la regione.
Non vi erano stati delitti nella notte.
Eppure lui ricordava bene quell’odore di sangue, di terrore, di morte.
Corse alla cattedrale.
Vi entrò.
Era semi deserta a quell’ora: qualche vecchia seduta sulle ultime panche, un paio di suore a sgranare il rosario, il sagrestano che spolverava l’altare maggiore.
Improvvisamente sentì la minacciosa familiarità dei passi che lo avevano sconvolto mentre, immobile sul suolo della chiesa, aveva immaginato la sua fine.
Tac, tac, tac.
Ebbe un brivido, poi cominciò a sudare e a tremare.
Tac, tac, tac.
Sentiva di nuovo il suo corpo incapace di muoversi e si stupì quando invece si scoprì in grado di girarsi nella direzione della provenienza del rumore dei passi.
Tac, tac, tac.
Vide un uomo che si accompagnava con il bastone avvicinarsi.
Riconobbe il vecchio padre organista.
In una mano stringeva il roncolo.
Il suo roncolo.
Quello con cui aveva scolpito le figure soavi di angeli, santi e madonne.
Quello in cui ci aveva visto infilato un occhio umano.
Quando furono vicini, il vecchio gli porse l’arnese.
-Questo deve essere suo. Ieri sera, dopo la messa lo abbiamo trovato laggiù.
L’intagliatore guardò il punto indicato dall’organista e riconobbe il posto dove aveva visto il roncolo con l’occhio infilzato.
-Deve averlo perduto o dimenticato.
L’intagliatore cercò di indagare negli occhi del vecchio per cercare di leggervi la verità. L’uomo era tranquillo e lo guardava con la solita espressione trasognata di quando guidava le funzioni religiose con la gravità delle note dell’organo antico, continuando a porgergli il roncolo.
Lui allungò la mano per prenderlo.
E mentre il roncolo passava dalla mano del prete a quella dell’intagliatore un raggio di sole proveniente dalla vetrata centrale illuminò il pavimento della cattedrale.
Quasi istintivamente l’intagliatore seguì con lo sguardo la traiettoria di quella luce improvvisa che si fermò ad illuminare una grossa pietra di forma esagonale dove vide inciso un nome, Benedetto Salieri.
Guardò il prete.
-Mi scusi, chi era Benedetto Salieri?
-Un intagliatore di santi, vissuto nella seconda metà del settecento. E’ stato assassinato, una notte di aprile in circostanze misteriose. Il suo corpo fu trovato proprio nella cattedrale appoggiato al confessionale che lui stesso aveva scolpito, la testa mozzata, a cui erano stati cavati gli occhi con il roncolo che utilizzava per intagliare il legno, era qui, sul pavimento. Si dice che fosse stato ucciso dall’organista che lo accusava di aver mutato il suono dell’organo con le sculture con cui aveva decorato lo strumento.
Il roncolo cadde improvvisamente dalle mani dell’intagliatore sulla pietra col nome di Benedetto Salieri.
La lama brillò come un diamante alla luce di quell’inquietante raggio del sole di primavera.