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Ciao nero
di Taeli Valmont

Infreddolito, fissavo la punta delle mie scarpe rovinate dalle piogge insistenti dell’ultima settimana.

Poche persone alle nove della sera aspettavano il tram della linea “3” con me: un vecchio, due studenti, qualche straniero. Tutta gente senza soldi o senza patente.

Io non avevo ne gli uni ne l’altra.

Quarant’anni appena compiuti, un lavoro appena perso, una fidanzata che se ne era andata da poco ed un gatto spelacchiato che non se ne voleva andare.

Fissavo la punta delle mie scarpe con insistenza ma anche con disattenzione: in realtà era un modo per pensare al colloquio con il caporedattore di “Milano e noi” avvenuto poche ore prima.

  

- Abbiamo bisogno di idee fresche di menti giovani - mi aveva spiegato con veemenza Libero Santucci da dietro le lenti spesse, dei suoi occhiali antiquati, con cui mi mi fissava interessato.

- Il nostro giornale dovrà avere un’impostazione anticonformista e dovrà essere a passo con i tempi. Lei è vecchio. Ed ha un curriculum troppo complesso: troppa esperienza, qui da noi, non è la giusta prerogativa per ottenere un ingaggio.

Essere vecchi a quarant’anni non era piacevole.

Eppure ero improvvisamente diventato vecchio, senza accorgemene.

Troppo vecchio e troppo colto per collaborare con un giornale mediocre. 

Il freddo stava diventando pungente, avevo terminato le sigarette e le punte delle mie scarpe erano sempre lì.

Mi ero stufato di fissarle.

Non volevo più pensare al caporedattore di “Milano e noi” e cercavo di esplorare la personalità dei miei compagni di marciapiede.

Il vecchio aveva un’aria distinta e per bene: cappotto cammello, borsalino scuro, scarpe lucide, viso sereno. Sicuramente non aveva problemi economici o almeno mi piaceva pensarlo e probabilmente usava i mezzi pubblici  per una vecchia abitudine.

I due studenti avranno avuto 15- 16 anni, lo zaino colorato sulle spalle, si urtavano a vicenda ridendo ed intercalando le loro esclamazioni con qualche bestemmia e qualche vaffanculo. Chissà, forse era quello il gergo fresco ed anticonformista richiesto dal giornale che mi aveva fatto invecchiare all’improvviso.

Oppure era qualcosa che nella mia precoce vecchiava non riuscivo a decifrare e ne ero infastidito.

Così com’ero infastidito dai rumori di una città in eterno movimento, da quell’odore di aria sudicia che sapeva di gas di scarico e di menefreghismo.

Guardavo il gruppetto di sudamericani chiacchierare nella loro lingua a voce alta e i due nordafricani silenziosi,  stretti nei loro giubbotti, troppo leggeri per il freddo della sera.

Tutti poveracci come me.

Tutti con uno spirito di adattamento superiore al mio che mi faceva rabbia, che ammiravo e detestavo per non possederne nemmeno una minuscola parte.

 

Dal fondo della via, il “3”,  non si vedeva ancora ed io non sapevo più che fare per ingannare il tempo e per avere meno freddo.

Le punte delle mie scarpe stavano sempre lì, ed erano sempre consumate e smangiate dall’acqua degli ultimi giorni.

Mi venne in mente Silvana nell’atto di radunare i suoi libri in una scatola.

Li divideva pazientemente per autore.

Avevo capito che la nostra storia era finita quando l’avevo vista levare i suoi libri dagli scaffali dello studio.

Non lo aveva mai fatto.

Nei litigi precedenti aveva infilato  solo pochi indumenti nel borsone della palestra, ma non aveva toccato libri e cd.

- Cosa fai? - le avevo chiesto rientrando da uno dei miei soliti pomeriggi vuoti in cui avevo girato inutilmente per le redazioni della città in cerca di un lavoro.

- Torno a Torino.

- Perché?

- Perchè sono stufa di questa città, perché sono stufa di questo appartamento, perché sono stufa del mio lavoro, del nostro rapporto. Perchè sono stufa di stare con te. -

Era stufa di stare con me e me lo stava dicendo senza preamboli senza giri di parole che attutissero il colpo.

Lo diceva, diretta, come era sempre stata.

Come quando mesi prima mi aveva detto che si sarebbe stabilita a casa mia.

Con Silvana non mi era mai riuscito decidere qualcosa. La seguivo passivamente in tutte le sue imprese, piccole o grandi.

Mi ero sempre sentito apatico ed impotente di fronte a lei. Silvana assorbiva tutte le mie energie, mi disorientava con il suo fare altezzoso ed esuberante.

Non era bella e nemmeno intelligente ma la sua presenza  annichiliva la mia personalità che si impigriva inspiegabilmente piegandosi ad ogni suo capriccio anche se ingiustificato.

- Così te ne vai?

- Sì.

- E’ successo qualcosa?

- Non è successo niente.

- E allora perchè vai via?

- Perché non è successo niente. Perché “non succede niente”.

- Ma cosa dovrebbe succedere?

- Niente…

Silvana mi stava lasciando per niente, forse per noia.

Rivedevo la scena del giorno prima. Era una specie di incubo ricorrente che mi aveva perseguitato tutto il giorno e che la notte prima non mi aveva lasciato dormire.

 

- Scusi ha un biglietto da vendermi? Era la voce di uno dei due studenti.

- No, mi spiace.

Non avevo nemmeno un biglietto per me.

Ero arrabiato e volevo vendicarmi contro non sapevo bene chi e la piccola trasgressione di viaggiare, sui mezzi pubblici, senza biglietto appagava miseramente il mio bisogno di vendetta.

Ma in quel momento mi vergognai.

Avevo 40 anni, non ero stato capace di farmi rispettare da una fidanzata stupida, non riuscivo a trovare uno straccio di lavoro e per riscattarmi andavo sugli autobus senza pagare.

 

Il “3” non arrivava ed io consumavo i pensieri sulle punte delle mie scarpe.

Si era alzato il vento e l’aria gelida mi schiaffeggiava il viso come per punirmi della malsana idea di salire sul “3” senza biglietto.

Improvvisamente mi sembrava che in quella via tutti avessero intuito il mio proposito di viaggiare a sbafo.

Lo sapeva il vecchio, lo sapevano i sudamericani, i nordafricani, i due studenti, gli automobilisti, i passanti e forse lo sapeva tutto il quartiere, chissà magari l’intera città aveva capito che volevo salire sul tram senza biglietto!

Mi sentivo soffocare.

Arrivò il tram e salirono tutti ma io non ci riuscii.

Vidi il tram aprire e richiudere le porte scorrevoli e ripartire, ma non ebbi il coraggio di salire per la vergogna.

Sentivo le lacrime attraversarmi la faccia, tiepide e veloci.

Tirai su il bavero del giaccone e mi incamminai verso casa.

Non avrei preso il tram senza biglietto.

Non mi sarei vendicato ma mi sarei punito sfidando il gelo della stagione invernale facendo le poche fermate di tram che mi separavano da casa a piedi. 

Camminavo svogliato non mi andava di ritornare a casa.

Non avrei ritrovato lo spirito sarcastico di Silvana ad attendermi ma solo le goffe fusa del mio gatto spelacchiato.

Pensai alla mia cena che sarebbe stata distratta e solitaria e mi ricordai di non aver fatto la spesa, operazione che di solito svolgeva Silvana.

Non che Silvana possedesse l’istinto della massaia, ma rientrando a casa prima di me riusciva a trovare  il supermercato  ancora aperto.

Non sapevo cosa avrei trovato nel frigo ne ricordavo l’ultima volta che lo avevo aperto.

 

Aprii la porta di casa controvoglia.

Mi aspettava la solitudine serale e fallimentare della mia esistenza.

Sentii il gatto strusciarsi contro le mie gambe.

Mi chinai per prenderlo in braccio.

Aveva l’aria di un micio felice, lo dimostrava la rumorosa manifestazione d’affetto del suo ron ron.

Non aveva nome, era semplicemente il Gatto.

Sentivo il caldo del suo pelo morbido solleticarmi la guancia e mi emozionai pensando che eravamo simili io e il Gatto.

Soli ed abbandonati.

Presi la scatola dei suoi croccantini preferiti e li versai nella sua ciotola.

Aprii senza troppa convinzione il frigorifero.

Non vi era quasi nulla: una bottiglia di acqua gasata, un pezzo di formaggio avvolto dalla pellicola trasparente ed una confezione di yogurt magro vicino alla scadenza.

Mi venne freddo ed io avevo bisogno di buttar giù nello stomaco qualcosa di caldo e zuccherato.

Trovai dei crackers non salati nella credenza e delle bustine di tè: mi venne in mente quando da bambino mia nonna mi faceva fare colazione con i crackers intinti nel tè caldo.

Misi con entusiasmo l’acqua a bollire, mi levai il giaccone e pensai a mia nonna a quand’ero piccolo, al suo abbraccio affettuoso che in quel momento mi mancava.

Portai il mio tè con le mie gallette nel soggiorno, mi abbandonai sul divano e accesi la tv.

Il rumore della pubblicità mi dava noia così abbassai il volume e, tra una galletta intinta nel liquido fumante e l’altra,  sbirciavo le immagini poco convincenti di una delle tante inutili reti televisive.

Il gatto si era accocolato di fianco a me appagato della sua dose di coccole e croccantini.

Io mi sentivo meno infreddolito e meno affamato dopo l’insolita cena che mi aveva catapultato nel periodo della mia infanzia.

Ora le immagini della tv si sovrapponevano a quelle della mia vita in un andirivieni di personaggi e situazioni.

Mi sentivo un fallito ed invidiavo il gatto che si era addormentato soddisfatto.

Non avevo un domani e non avevo più un passato.

Ero solo contro un futuro incerto che mi voltava le spalle per impedirmi di capire che faccia avesse.

Mi addormentai pensando alle mie incertezze. 

 

-Fui svegliato dallo squillo insistente del telefono.

-Pronto?

-Signor Fulvio Rosi?

-Sono io, chi parla?

-Sono Libero Santucci, ci siamo incontrati ieri, ricorda? – ricordavo.

-Certo, “Milano e noi”, le menti giovani, ecc.

-Esattamente. Le va di investire un po’ della sua esperienza nel nostro progetto editoriale?

-Certo. – all’improvviso mi sentii di buon umore - Ma cosa le ha fatto cambiare idea?

-Il colore della sua pelle: lei è “nero”.

- Sono “nero” ma sono italiano. Sono stato adottato.

-Un italiano “nero”, e da nero può certamente avere una visione diversa delle cose.

-Più “scura”? - ironizzai.

-Stiamo aprendo una rubrica dedicata ai giovani lettori stranieri, “Ciao Nero”, e ho pensato a lei che è “nero” ma non del tutto straniero.

-Non la seguo: io sono italiano, come posso occuparmi di qualcosa che non conosco?

-Imparerà.

-Ma perché io?

-Perché è “nero”.

-Come se il colore della mia pelle affiorasse dai miei articoli. – una rabbia sorda cominciò a montare, trattenuta dal tremito delle mie mani.

-No, ma può essere un incentivo. Allora accetta?

-No.

-E perché mai?

-Perché non sarei un “nero” vero.

-Ma non lo saprà nessuno, inoltre si firmerà con uno pseudonimo.

-Non vorrei ripetermi, ma io sono italiano e non so nulla di problemi che riguardano il mondo degli immigrati.

-Lei è pieno di pregiudizi.

-Forse.

-D’altra parte col colore che ha mica possiamo assumerla come un  qualsiasi giornalista!

-Ora è lei ad avere pregiudizi – la rabbia saliva vorticosa e violenta.

-Non è questione di pregiudizi: questo è un giornale italiano fatto da italiani.

-Ma io sono italiano! - Mi sentii gridare.

-A prima vista non si direbbe. – la sua voce aveva un tono tra il beffardo e l’ossequioso. -Insomma lo vuole l’incarico sì o no?

-No. – e gli chiusi il telefono in faccia.

Scagliai il telefono contro il muro.

Quella telefonata mi era sembrata irreale. 

Andai in bagno e mi guardai allo specchio: ero “nero”.

Molto nero.

E provai un forte senso di risentimento.

Ma ero anche italiano, completamente italiano.

E mi pentii di esserlo.