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L'INTERVISTA - Luca Maciacchini
di Elisabetta Di Dio Russo

Dopo aver pubblicato “Il boomerang di Dante”, album inconsueto e molto particolare, Luca Maciacchini torna sulla scena teatrale con un nuovo spettacolo dedicato alla vicenda drammatica di Giorgio Ambrosoli. In questa intervista Maciacchini si svela al pubblico di Erzebeth raccontando la sua passione per musica, canto e recitazione e spiega perchè ha deciso di dedicare uno spettacolo ad una delle pagine più dolorose della storia italiana.

 

Come è nata la sua passione per il teatro canzone?

Credo risalga alla mia infanzia: a tre anni  (negli anni Settanta) ricordo che andavo all’asilo con il mio mangiadischi rosso con dentro il 45 giri “Il pescatore” di Fabrizio De André e a 4 anni mangiavo la bistecca ascoltando “Dialogo tra un impiegato e un non so” di Giorgio Gaber. I miei genitori mi hanno messo sulla retta via da subito, non ho neanche avuto il tempo di scegliere.

Poi a poco a poco, dopo Gaber e De André che sono stati i miei padri spirituali, mi sono sciroppato tutta la canzone milanese con Nanni Svampa, Enzo Jannacci, Walter Valdi e infine sono passato ai grandi cantautori come Edoardo Bennato, Francesco De Gregori, Lucio Battisti, Francesco Guccini ma anche a quelli minori come Rino Gaetano e Franco Fanigliuolo che, secondo me, sono stati due esponenti mancati del Teatro Canzone e poi Stefano Rosso e Gianfranco Manfredi. A 10 anni durante le riunioni di famiglia recitavo i monologhi di Dario Fo e Giorgio Gaber e a 11 ho iniziato a studiare la chitarra classica. In seguito ho sempre cercato di portare avanti le mie due grandi passioni, la musica e la recitazione. Dopo il liceo mi sono iscritto all’Accademia d’Arte Drammatica di Paolo Grassi di Milano, diplomandomi  attore nel 1997, nel 2002  al Conservatorio di Novara ho ottenuto il diploma di chitarra classica.

Ha un modello a cui si ispira in modo particolare?

Come ho già detto Giorgio Gaber, anche se penso che, seppur faticosamente, un artista  dovrebbe non dico liberarsi dal proprio modello ma trovarsi una propria strada.

Diciamo che i modelli possono anche essere più o meno inconsci e derivano dalle varie esperienze che ho fatto durante la mia formazione. Uno di questi è il regista Gabriele Vacis che è stato il mio insegnante. Con lui ho lavorato quattro anni, ho capito cosa significa stare su un palco e ho anche imparato come si possono fondere le varie discipline artistiche. Il teatro di Vacis è infatti multimediale e comprende canto, musica recitazione. Alla fine i vari modelli si fondono nei mille colori di una tavolozza.

Lo scorso anno è uscito “Il boomerang di Dante”,  suo secondo album. Nell’album lei si indigna con la società facendolo con mezzi diversi: oltre la canzone lei ha utilizzato il dialetto e alcuni pezzi di Dante. Come mai questa scelta?

Diciamo che ho seguito l’istinto anche se una delle critiche che è stata fatta a questo album è stata “tu ci hai ficcato dentro tutto ciò che sai fare”.

Quando ci si indigna contro la società si rischia di cadere nel banale e poi oggi sembra che non si possa più parlare di niente, a differenza degli anni Settanta, dove invece la voce del cantautore era presa un po’ come una traccia a cui far riferimento. Utilizzo il dialetto a seconda dell’umore, non c’è un motivo ben preciso. Di Dante invece mi è piaciuto riscoprire dei pezzi che quasi nessuno ricorda più come quello di “Belacqua”.

Lei è stato definito un “cantattore”. Si sente più cantante o più attore?

E’ come chiedere qual è il figlio preferito a un padre!

Non sono l’unico artista ad essere stato definito così. Diciamo che la definizione non è completa: oltre ad essere un cantante ed un attore sono anche un musicista. Ma penso che, facendo Teatro Canzone, non si possa scindere una delle varie discipline che lo formano anche se forse sceglierei la canzone, perchè mi sembra che mi venga meglio.

Dal “Boomerang di Dante” è stato tratto anche uno spettacolo?

Ho deciso di fare un recital dove inserire sia le canzoni de “Il boomerang di Dante”, sia le canzoni del mio album precedente “Semaforo rosso”, intercambiando i brani a seconda della situazione e dell’attenzione del pubblico. Lo show ha quindi una struttura assolutamente aperta.

Quindi decide cosa fare sul palco, non prima.

Praticamente sì. In realtà questa è quella che banalmente in teatro viene chiamata “tecnica di ascolto del pubblico”. Dovrebbe essere sempre così: Gabriele Vacis ci insegnava proprio ad ascoltare e ad accompagnare il respiro del pubblico. Nel momento in cui si è sul palco si deve quindi abbandonare la quarta parete che separa l’attore dal pubblico e ci si deve mettere in simbiosi con le persone che ascoltano, prestando attenzione alle reazioni e comportandosi di conseguenza, modificando la scaletta o il finale in corsa.

Parliamo del suo nuovo lavoro: lei sta portando in scena uno spettacolo dedicato a Giorgio Ambrosoli. Come mai ha deciso di ripercorrere una delle pagine così drammatiche della storia italiana?

Arriva un momento nella vita in cui ti dici “diamo un senso preciso a questa carriera”.Va bene essere commerciali, far ridere, divertire ma vi è anche la necessità di dire “cosa ci sto a fare su un palco?” Provvidenziale è stato l’incontro con Annalori Ambrosoli nel 2008. Parlando con lei mi è venuta l’idea di ricordare la figura del marito Giorgio con la formula inconsueta del Teatro Canzone. Analizzando a fondo la figura di Giorgio Ambrosoli salta all’occhio la sua grande coerenza che io racconto in una canzone. Ambrosoli è stato coerente fino alla fine fino al punto di pagare con la vita, intraprendendo una strada rischiosissima che fin da principio aveva capito dove lo avrebbe portato. Infatti nella famosa lettera che Ambrosoli scrisse alla moglie disse “Qualunque cosa succeda sai quello che devi fare”, sapendo che avrebbe avuto poche possibilità di uscirne vivo.

Ambrosoli decise di fare politica attiva in nome dello Stato e non in nome di un partito e questo gli si è ritorto contro.

Questo spettacolo che ho scritto insieme alla regista e drammaturga Michela Marelli (io ho scritto le canzoni e lei i testi) è per me motivo di orgoglio. Attraverso il monologo e la canzone io racconto la storia di Giorgio Ambrosoli dalla sua nascita fino al suo drammatico epilogo.

Quale è stata la reazione della famiglia riguardo il suo spettacolo?

Ho visto Annalori Ambrosoli piangere di contentezza per come è stata raccontata la storia e soprattutto perchè non abbiamo politicizzato la vicenda. Abbiamo preferito raccontare la vicenda in maniera corretta ed originale, cercando di far capire al pubblico anche alcune parti complicatissime della vicenda Ambrosoli. Non è stato semplice, ma a giudicare dalle reazioni del pubblico che ha seguito le prime due repliche pensiamo di aver fatto un buon lavoro. Francesca, la figlia di Giorgio Ambrosoli mi ha detto “Spero che i miei figli attraverso te conoscano meglio il nonno Giorgio”.

Cosa c’è nell’immediato futuro di Luca Maciacchini?

Sicuramente continuerò a promuovere il “Boomerang di Dante”, il 15 maggio sarò invece al Teatro Out Off di Milano con Gianni Pettenati con cui sto collaborando dallo scorso anno, dove presenteremo “breve storia della canzone”, uno spettacolo di sua ideazione.

E poi naturalmente punterò sullo spettacolo dedicato a Giorgio Ambrosoli che presenterò il 17 aprile al Teatro delle Arti di Mantova.

 

 

www.lucamaciacchini.com

 

 

 

(Aprile 2011)