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L'INTERVISTA - Marco Ongaro racconta i suoi "Anni Ruggenti"
di Elisabetta Di Dio Russo

“Anni ruggenti” appartiene a quel genere di dischi difficili da dimenticare: una raffinata e colta opera discografica, assolutamente rara che sembra uscita da un’epoca lontana pur avendo un’attrattiva molto attuale e moderna. Marco Ongaro, autore ed interprete di “Anni ruggenti”, in questa intervista spiega perchè ha deciso di dedicare un intero disco agli anni del proibizionismo così lontani dalla nostra epoca ma così straordinariamente presenti nella nostra società.

 

Per il suo ultimo album, “Anni ruggenti” si è ispirato agli anni Trenta. Come mai ha deciso di rievocare questa epoca particolare?

 

La richiesta è venuta da Marco Pasetto, leader della Storyville Jazz Band e da molto tempo mio collaboratore nei concerti dal vivo. L’idea era di creare un repertorio dixieland inedito che lui avrebbe dovuto cantare e l’orchestra portare in giro. Quando gli ho cantato al pianoforte le canzoni scritte appositamente, Marco mi ha guardato e mi ha detto: “Sarebbe bello che le cantassi tu”. Mi è parso logico. Il tema degli Anni Ruggenti è nato insieme alla musica. Ispirandomi a quel mood protojazzistico mi è venuto naturale parlare dell’epoca in cui più era in voga. Spesso alla musica rimangono appiccicate le parole della sua epoca e della sua connotazione geografica. Già era azzardato creare del dixie “inedito”, dei nuovi standard insomma, a quel punto l’idea di creare un autentico falso storico, mi si passi l’ossimoro, è diventata molto allettante.

 

Cosa la attrae del periodo del proibizionismo oltre il modo di fare musica?

 

Non credo di essere particolarmente attratto da quel periodo storico. Mentre scrivevo le canzoni una cosa mi balzava alla mente con insistenza, la spregiudicatezza di un’epoca apparentemente felice e in realtà disperata, preludio di un disastro economico molto prossimo al nostro. L’opposizione tra gangsters e polizia, una certa visione epicurea ma anche fatalistica dell’esistenza, il rifiuto e la trasgressione della proibizione istituzionalizzata, quindi dell’ipocrisia, mi hanno affascinato come il patrimonio dinamico di un’umanità ancora sveglia, non ancora inscatolata nel televisore. Non erano tempi facili o belli, ma erano vivi, non soporiferi.

 

Alcuni testi di “Anni Ruggenti” contengono riferimenti che ancora oggi sono attualissimi e validi per l’attuale società: “Pioggia di uomini” si avvicina drammaticamente ad una tragedia recente, all’11 settembre; “Ringraziamo” sembra bacchettare la nostra politica attuale.

E’ una casualità o un modo estremamente raffinato per contestare ciò che succede oggi?

 

Propenderei per la seconda ipotesi, ringraziando per l’aggettivo “raffinato”. Non c’è bisogno di scomodare il disastro delle Torri Gemelle ascoltando “Pioggia di uomini”, è sufficiente pensare al crollo della borsa che rende nero da qualche tempo ogni lunedì negli Stati Uniti per poi raggiungere gli altri continenti col suo carico di angoscia. La Depressione alle porte non c’era solo negli Anni Ruggenti. La tendenza al proibizionismo, d’altra parte, è assolutamente presente nella nostra epoca e nella nostra nazione. L’ingerenza del governo in questioni private, la criminalizzazione di chi fuma, mica marijuana ma semplici sigarette, ci è molto familiare. Sì, parlare di un tempo passato per descrivere l’attuale era un espediente da avanspettacolo. Il Nerone di Petrolini in tempo mussoliniano ne è esempio fulgido. L’artista s’ingegna e trova il suo modo di commentare il presente rivolgendosi a chi è in grado di capire.

 

Il suo disco è forse contro corrente rispetto a ciò che la discografia italiana propone in questo periodo, del resto lei non ha mai rincorso il successo facendosi influenzare da mode e tendenze discografiche. Quanto le è costata questa scelta?

 

Costata in termini di guadagni? Tantissimo. In termini di fatica, poco o niente. Mi viene naturale , è sempre stato così. Non ho mai desiderato offendere la mia intelligenza né quella di chi stimo scendendo a compromessi rispetto a ciò che mi piace. A dire il vero all’inizio della mia “carriera”, quando nessuno più pubblicava un’opera prima di un cantautore, ho accettato di fare un disco di musica dance, con un nome fittizio, e sono finito quinto in classifica in Spagna. L’unica volta nella mia vita. Il brano ancora oggi gira e alla SIAE è nella categoria “sempreverde”. Mi è bastato per sentire che non stavo comunicando niente, stavo solo immettendo involucri precostituiti in un mercato d’involucri precostituiti. Una volta visto che ero capace di farlo ho perso ogni interesse al riguardo.

 

Nella nostra società è permesso quasi tutto eppure, rispetto all’epoca del proibizionismo, l’arte sembra essersi assopita perché la genialità degli artisti oggi è molto labile.

Vi è secondo lei un nesso tra l’arte e la libertà o sono altre le cause dell’assopimento dell’arte?

 

Secondo Borges la tirannia è la madre della metafora. L’artista oppresso escogita infinti stratagemmi per sviluppare la propria opera. Quindi il rapporto tra arte e libertà è variabile, non per forza positivo o negativo a seconda del regime del Paese in cui si vive. Avverto un assopimento recente, è vero, dato più da una standardizzazione forzosa che da un effettivo rapporto artista-establishment. Il genio trascende il governo, almeno questo non lo possiamo imputare ai governanti. Se piove, il governo è ladro, se non ci sono colpi di genio è perché non ci sono o perché nessuno li cerca.

 

Molti artisti si lamentano perché l’arte oggi è poco tutelata ed incentivata.

Secondo lei oggi c’è rispetto per l’arte?

 

Da quando il Principe ha abbandonato gli artisti, gli artisti sono rimasti soli. La borghesia li foraggia ma li odia, il Mercato è un mostro senza testa. Non so elaborare una buona teoria in merito. Gli incentivi vanno a chi sa fare domanda. Chi sa fare domanda, spesso, per il semplice fatto di mettersi lì a farla, denuncia di essere più un ragioniere che un artista. No, non so cosa rispondere, non mi sono ancora fatto un’idea precisa sul rapporto tra la tutela, il sostegno pubblico dell’arte e l’opera dell’artista. Credo siano due piani umani diversi.

 

Alcuni cantautori si stanno avvicinando al teatro proponendo spettacoli dove la canzone non è più al centro della scena, mischiando la musica alla recitazione. (lo ha fatto recentemente Eugenio Finardi con “Suono” al Filodrammatici di Milano, lo ha fatto Shel Shapiro che ha proposto uno spettacolo di Edmondo Berselli dedicato agli anni Sessanta/Settanta).

Lo farà anche lei?

 

Lo faccio già da molto tempo. Anch’io ti amo, opera di teatro-danza basato sulle mie canzoni di Archivio Postumia per la Compagnia di Sisina Augusta è un’esperienza del 2001.  L’arte della fuga, su musiche di Andrea Mannucci, per il Teatro Nuovo di Verona è un’azione multimediale che risale al 2003. Nel 2004 ha debuttato Il cuoco fellone, opera buffa contemporanea in due atti su musica di Mannucci e mio libretto. L’aprile scorso a Parigi ha debuttato l’opera lirica contemporanea Kiki de Montparnasse, sempre su mio libretto e musica di Mannucci. Debutta a maggio di quest’anno Andata-ritorno-andata. Un monologo con canzoni che ho scritto per la Compagnia Teatro Scientifico e l’attrice Isabella Caserta, diretto da Walter Manfrè. Sto collaborando con Max Manfredi a una serie di canzoni per uno spettacolo teatrale che debutterà in Liguria. Da due anni insegno scrittura creativa al Teatro Stabile di Verona. Che questo si sappia o meno, rispetto a colleghi più illustri citati nella domanda, è solo pertinenza di considerazioni fatte più sopra.

 

Dopo “Anni ruggenti” cosa c’è nel suo futuro?

 

Oltre a quanto detto, il prossimo disco dovrebbe essere quel Canzoni per adulti che continuo a rimandare per motivi vari, coperti da quest’intervista e forse anche no.